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Moena, paese di confine
 

Il progetto della storia di Moena

Perché scrivere la storia di Moena? Il quesito apparentemente banale sottende ad una risposta altrettanto semplice. Perché manca. E questa manchevolezza è tanto più grave quanto consideriamo la ricchezza di segni, spesso tenui ma ancora visibili, nascosti fra le pieghe dei secoli, e da scoprire a chi vuole conoscerli. Un libro di storia. Un libro di storia locale. Per di più di un paese di montagna, assediato dal cemento e dal tumulto turistico del terzo millennio. Sfogliando il suo cammino ci si accorge degli infiniti passaggi del tempo, ma soprattutto dei confini che l'hanno solcata, talvolta impercettibili e slavati dai secoli. Il confine geologico, stretta fra rocce eruttive frutto di colate, magmi e lapilli e sedimenti di molluschi e coralli marini. Poi i primi passi dell'uomo, fino al termine del selvaggio territorio di battute venatorie dei cacciatori mesolitici e il potente ghiacciaio vallivo. E poi ancora confini, prima fra la civiltà romana e i brutali reti, fra longobardi e baiuvari, poi fra comunità vallive, principati vescovili, stati nazionali. Abbiamo voluto cogliere i segni di questi confini. non per rimarcarli ma per ribadire le peculiarità e ricchezza storica di questo paese. Il testo pur scritto con rigore, tenendo fede a documenti e prove certe, cercherà di coinvolgere un pubblico il più vasto possibile, senza ammaliare con leggende e ripetitivi "sentito dire". Si tratterà di una divulgazione storica, vista come sintesi di fatti, notizie, documenti e reperti. Ed a questo piano di lettura propriamente "storico" se ne affiancherà un altro, immerso nel testo ma che emergerà sotto forma di "schede" singole e avrà il compito di approfondire alcuni aspetti della storia di Moena, completando e speriamo arricchendo la narrazione. Grande attenzione verrà posta all'iconografia, selezionando fotografie inedite, con forte richiamo al testo e privilegiando immagini pittoriche utili alla narrazione. Moena, paese di confine si diceva. Il sottotitolo può risultare forse sorprendente a chi non conosce le vicende. A volte quasi invisibili, spesso marcate sono le linee di confine che coinvolgono il territorio. E prima di tutto salta agli occhi il paesaggio geologico, dove il contrasto fra la roccia sedimentaria e quella vulcanica, si fonde e smussa, dando origine a metamorfismi geologici e sorprese minereaologiche di cui la catena del Monzoni è un ricco scrigno. Per non parlare del paesaggio modellato dal minellario ghiaccaio dell'Avisio e dalle risultanti acque, la conca di Moena (forse un antico lago), richiama il bel fondovalle della valle di Fiemme per poi inasprirsi improvvisa verso Fassa. La storia del territorio è però per noi storia dell'uomo. I primi uomini che solcano i nostri luoghi sono i mesolitici, cacciatori stagionali che sfidano le alte quote per un bottino di carne. Punte di freccia e resti della lavorazione a scopo utensile della selce sono stati rinvenuti nei piccoli specchi lacustri post-glaciali del Lusia e san Pellegrino. E millenni dopo un'altra spinta verso la montagna è quella della ricerca dei metalli, il rame e il ferro, elementi preziosi per chi li trova e per chi ne possiede i segreti della lavorazione. Le prime genti stabili, ricalcando i comodi sentieri di questi arditi cercatori, riescono a trovare vantaggioso stabilirsi a queste altitudini, sfruttando le poche ma sufficienti risorse delle nostre montagne. Ed è ipotesi recente la presenza nella piena età del ferro di una tribù "retica" nella valle dell'Avisio, organizzata in clan familiari e con un elevato grado di autarchia. Nulla sappiamo dell'età romana. Ma anche qui Moena si presenta a ridosso di un limite, quello dei "prediali", ossia degli insediamenti romani che si fermano a Predazzo, come a Predazzo si arrestano ogni rinvenimento di tale epoca. Era Moena completamente disabitata in epoca romana, o, come alcune ipotesi vorrebbero, ai confini della romanità, inclusa in un'enclave montana con le altre valli dolomitiche legate amministrativamente con il regno del Norico? Forse proprio in quest'epoca nasce il confine linguistico fra il ladino in genere e moenese in particolare e le parlate di Fiemme, Lingua ladino-moenese anch'essa peculiare che si è evoluta e in parte distaccata anche dal "cazet" della media valle di Fassa. Dell'epoca buia del primo medioevo poco si sà anche per il resto del Trentino. In quest'epoca avviene la definitiva cristianizzazione, nel caso del nostro territorio attraverso la spinta propulsiva evangelizzatrice di Aquileia. Le pievi si sovrappongono alle comunità, le diocesi si vanno organizzando sugli antichi municipi romani. Moena rimane anche qui la limite, tra le pievi di Vigo e Cavalese, al confine diocesano fra Trento e Sabiona prima, Bressanone poi. E quando il vescovo Adalpreto nel lontano 1164 consacra la chiesa del paese a San Vigilio, sancisce, come ponendo un termine di confine, la definitiva appartenenza di Moena al vescovado trentino. Appartenenza che non significa una immediata partecipazione alla comunità di Fiemme che pochi anni prima aveva ottenuto il suo riconoscimento ufficiale con la stesura dei patti ghebardini. La comunità moenese gravita per alcuni anni in stretto contatto con le vicende comunitarie di Fiemme, ma vi entra a far parte ufficialmente più tardi, trovandosi coinvolta in una situazione di apparente privilegio, ma in realtà segnata sempre dalla condizione di "comunità aggiunta" e sempre desiderosa ed animata da una certa volontà di autonomia. Le guerre e le pestilenze, le "brentane" e le carestie non riescono a fiaccare mai lo spirito dei moenesi che possono contare, a differenza dei vicini fassani di una risorsa vitale per l'economia di montagna, il legname. Ed è proprio grazie a questo commercio, diretto alla pianura veneta e a Venezia in particolare, che i contatti attraverso il passo di Aloch si intensificano, di cui la fondazione dell'ospizio con dedica a san Pellegrino ne rappresenta il suggello nei secoli. Ma commercio vuol dire anche guerra. E in quella cinquecentesca fra Austria e Venezia. Moena è chiamata a salvaguardia del confine, con i primi appostamenti e presidi sul "Rif della Bastia". L'era moderna porta tuttavia un periodo di pace e sicurezza ai moenesi, e probabilmente anche un relativo benessere, lontana com'era dalle beghe delle nascenti monarchie europee. E' il momento delle prime manifestazioni artistiche delle quali ci è rimasta testimonianza e di cui Valentino Rovisi rimane sicuramente l'esponente più illustre. Centro fieristico, sede di dazio, Moena trascorre nella statica ma sicura economia di montagna fino ai primi dell'Ottocento, quando i moti rivoluzionari francesi spazzano via feudalesimi secolari. Proprio a cavallo del secolo e nell’onda di questo rinnovamento culturale, nasce a Forno di Moena, Francesco Facchini il più grande botanico trentino, grande anche perché profeta in patria e da ricordare non solo perché scopritore di specie fioristiche, ma anche per la sua attività di medico, geologo e naturalista in genere. L’Ottocento rimane poi il secolo della scoperta delle Dolomiti, del turismo ed escursionismo in genere, che portano anche a Moena i primi alberghi. Lontana dalla rivoluzione industriale e forte del suo spirito comunitario, il paese si fà più moderno, ma rimane lambito dai grandi progetti di collegamento che di lì a poco si realizzeranno. La ferrovia Ora-Predazzo e la strada delle Dolomiti la escludono, vendetta un po’ beffarda di un paese che stà al limite, di un territorio mai completamente compreso, solcato ma mai definitivamente annesso. Il relativo benessere di primo novecento, suggellato dalla nascita dalle prime istituzioni cooperative intravede la strada nella potenzialità turistica del paese. Ma è l’incendio della prima guerra mondiale rimanda tutto di anni. Il confine secolare del San Pellegrino si rianima, si fortifica nei porfidi di Bocche e nei calcari di Costabella. La gente di Moena dopo il tributo di sangue sul fronte russo, assiste alla più grande carneficina che la sua terra ricordi. Migliaia di giovani a grappoli cadono sotto grandini di granate e mitraglie. Il loro sangue nutre le praterie alpine, su quegli stessi prati dove per secoli i pastori hanno condotto le loro bestie in ordinata processione. Le cicatrici della guerra non fermano lo sviluppo del paese, grazie a quello che risulterà la vera ricchezza del suo territorio, le Dolomiti. E la storia del secondo dopo-guerra è quella del boom turistico, degli impianti di risalita, delle boutique e degli alberghi a tante stelle. Questa storia vorrebbe essere un tributo agli uomini di Moena che in tutti i tempi hanno preservato l'umanità di questi luoghi con religioso istinto di sopravvivenza. Vuole essere un grazie ai nostri antenati che con fatica disumana sono riusciti a trarre nutrimento da una terra difficile, messi alla prova da inverni lunghissimi, da alluvioni, frane e pestilenze. Questi uomini ci hanno insegnato il significato dell’essere comunità, dell'importanza del bene comune, ma anche una buona dose di sferzante ironia, di intelligente opportunismo che rimane proprio dei moenesi. Gente di montagna ma in grado di esprimere figli illustri, artisti sopraffini, filosofi ed scienziati. Ognuno di loro ha portato con sè nei secoli un gesto, una parola, un pensiero e nei casi più fortunati un oggetto un quadro, uno scritto, una casa. Ed ora ci ascoltano, ci guardano e ci giudicano. E a noi, vedendo e ascoltando quel poco che è giunto, sembra giusto fissarlo per chi verrà se lo vorrà.

Per concludere questa breve presentazione del progetto "libro di Moena" un ultimo pensiero di chi scrive. Sempre più turisti, sempre più macchine, sempre più asfalto e cemento. E a rappresentare questa folle spinta al sempre di più, ci viene in mente la nota scultura del Cirillo Bora raffigurante una madonna che piange. Cerchiamo di non farla piangere più.

Antonio Sommariva

 

 
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